Profughi dal Kosovo

Un campo profughi spontaneo




Duemila persone in duemilacinquecento metri quadri. La corte di una specie di fattoria, recintata da un muro in cemento, accoglie uno dei campi “selvaggi”, dove la Caritas cerca in qualche modo di aiutare i rifugiati. Questi si riparano nei cassoni dei trattori o a terra, sotto a


Vista di un campo improvvisato a Kukes

teli trasparenti di polietilente.

Parecchie decine sono dentro ad una stalla trasformata in ricovero. Entrare in quegli stanzoni è un’esperienza indimenticabile e sconvolgente. L’odore forte, gli sguardi larghi di vecchi e bambini, i malati, le persone che si accalcano intorno per sapere, per avere qualcosa, almeno un po’ di conforto umano.

Don Antonio cerca di far andare avanti questo campo come può, con i pochi mezzi che ha. C’è un tendone infermeria, ma il fango si insinua dappertutto, ottuso e spietato. Non ci sono servizi igienici e neanche l’acqua corrente.

Il prete ci ha chiesto di venire a riorganizzare un po’ il campo, dando consigli per drenare e fare in modo che gli escrementi sparsi in giro non portino malattie. Giro per questo lazzaretto con un paio di altri volontari, cercando posti buoni per le latrine e indicando dove mettere stenditoi per mettere i panni lavati al sole, oppure come far scolare l’acqua lontano dai giacigli. Gli uomini mi ascoltano con attenzione. Ma dopo tre giorni tutto è come prima.


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