Nel 1806 il trentaduenne ammiraglio Francis Beaufort della Marina Britannica ideò una scala di valutazione dei venti, classificandoli in base all'osservazione degli effetti della loro velocità; si può dire che Beaufort sta al vento come Mercalli ai terremoti. Ma, al di là della necessità di dare un valore alla forza del vento, per trovare soluzioni idonee a combatterne o a sfruttarne gli effetti sopratutto durante le navigazioni, cosa spinge un uomo a cercare di descrivere l'inafferrabile?
La funzione della ricerca scientifica è quella di osservare razionalmente e lucidamente un fenomeno naturale per non temerlo e per "addomesticarlo", ma se si leggono gli effetti descritti nella Scala Beaufort vi si trova qualcosa che va al di là dell'interesse scientifico: vi si trova della poesia. Facciamo un salto indietro nel 53 A.C. circa,è in quel tempo che Tito Lucrezio Caro (99 ? A.C.-55? A.C.) stila il De Rerum Natura, poema in sei libri: i primi due trattano la fisica atomistica, il terzo e il quarto gli uomini con le loro pulsioni, passioni e istinti, gli ultimi due si riferiscono alla storia del cosmo e all'umanità.
Il passo che ci interessa si trova nel primo libro:
"...anzitutto la forza sfrenata del vento flagella l'oceano, subissa pesanti navigli, disperde le nubi, e talora correndo pianure con rapido turbine ne abbatte i grandi alberi...." e ancora "...impazza in tal modo il vento con sibili acuti e infuria con minaccioso ruggito.Senza alcun dubbio i venti sono dunque corpi invisibili che spazzano il mare,le terre e le nubi del cielo...".
Ed ecco un poeta che sente la necessità di dare una fisicità all'invisibile, la sua eredità viene raccolta, dopo oltre diciotto secoli, da un giovane ammiraglio che integra la descrizione poetica di Lucrezio con dei numeri: ci troviamo fra il 9° e l'11° grado della Scala Beaufort che, a ben leggerla possiede una sua vena poetica.
Forse Beaufort non conosceva Lucrezio, potremo mai saperlo? Di sicuro non ebbe il tempo di leggere i versi di Emily Dickinson, poetessa statunitense (1830-1886) , la cui attività letteraria esplose nel 1860 circa, quando il nostro Ammiraglio era morto già da tre anni:
" Il vento prese quel che c'era al Nord e lo ammucchiò nel Sud, poi mischiò Est ed Ovest e spalancò la bocca come per divorare le quattro divisioni della terra. ogni cosa sgusciava via negli angoli dietro il potere orrendo..." |
E se qui la Dickinson è osservatrice, come Beaufort, degli effetti del vento, nei versi che seguono diviene "ricercatrice", con formula dubitativa, spingendosi oltre il visibile:
"La radice del vento è l'acqua, io credo- fosse figlio del cielo,men profonda sarebbe la sua voce- Gli oceani non trattengono le arie- Mediterranee intonazioni All'orecchio di una corrente- C'è marittima certezza Nell'atmosfera-" |
Forse, la migliore risposta alla domada iniziale, cosa spinge un essere umano a dare corpo all'inafferrabile, ce la dà Pablo Neruda (1904-1973) nella sua Ode all'Aria ( Odi elementari , 1954/59 ):
" ...regina o compagna, filo,corolla o uccello, non so chi sei,ma una cosa ti chiedo, non venderti..." |
Il poeta della libertà degli uomini non poteva che cantare la libertà del'aria, unica ricchezza dei poveri:
"...tu sei l'unica cosa che possiedono, per questo sei trasparente, perchè vedano ciò che accadrà domani, per questo esisti, aria, lasciati respirare liberamente, non farti imprigionare..." | | "...verrà un giorno in cui libereremo la luce e l'acqua, la terra, l'uomo, e tutto sarà per tutti, come tu sei." |
E qui chiara, lampante, inconfutabile, emerge una tragica banalità:
chi ammorba l'aria non legge di Poesia. Il profitto dei disboscatori e degli iperproduttori,che creano iperconsumatori, è inversamente proporzionale alla loro memoria letteraria o, forse, i tycoon nostrani e non, ricordano solo quel detto per cui Carmina non dant panem, le poesie non danno pane, sì, può darsi ma risposte ne danno tantissime.